Mercato Borghetto Flaminio

orietta

icona vintageicona abbigliamentoIl mercatino del Borghetto Flaminio (con il sottotitolo Garage Sale – Rigattieri per hobby) è nato nel 1994 dalla creatività (e non a caso il loro studio si chiama Creativitalia) di Enrico Quinto e Paolo Tinarelli, due amici che sul modello delle vendite da garage americane hanno creato a Roma il primo mercatino dell'usato o e piccolo antiquariato destinato agli espositori amatoriali.

Tra i banchi del mercato

In più di vent'anni il mercato è cresciuto molto ma non è cambiato molto lo spirito: dietro agli stand ci sono signore che si liberano di abiti e oggetti in seguito ad un trasloco proprio o di amici, gruppi di giovani che raccolgono accessori usati ma ancora nuovi, nonne che danno via gli abitini delle nipoti messi un paio di volte, ma anche l'appassionata cinofila Rita che realizza con ago e filo articoli ispirati agli amici a quattro zampe.3
“Essenzialmente volevamo fornire un'alternativa per una domenica diversa dal solito – spiegano Enrico e Paolo - dare la possibilità di incontrare persone interessanti, eccitare e sorprendere collezionisti a caccia di affari e permettere agli espositori di essere ripagati con un guadagno estemporaneo per quella giornata”. Per esporre al mercatino si paga 92 euro per la prima volta e 80 per la seconda prenotandosi telefonicamente. Per i banchi che offrono oggettistica viene fornito un tavolo, per chi ha abbigliamento un appendiabiti. Il mercato ha un “biglietto di ingresso”: 1,60 euro. “Questo garantisce sia chi espone sia chi compra – spiega Paola una delle espositrici storiche del mercatino – chi viene ad acquistare si sente tutelato sulla merce, mentre chi vende sa che non ci sono perditempo dal momento che se uno paga un ingresso è piuttosto motivato. All'inizio, 18 anni fa, sono arrivata qui con un'amica e poi una seriedi traslochi e la perdita prima di mia mamma poi di mia suocera mi hanno costretto a disfare diverse case, ho cominciato così sistematicamente a portare qui quello che non volevo più. Ormai poi si è sparsa la voce e quando un amico deve traslocare mi porta le cose che vuole vendere e io lo faccio per lui. Il mercato è cambiato un po' da quando era l'unico in tutta Roma però devo dire che l'atmosfera è sempre molto buona”.
12Il pubblico degli acquirenti rispecchia abbastanza quello degli espositori: ci sono soprattutto signore di mezz'età (magari con il marito che ne approfitta per leggere il giornale e prendere un caffé al bar di Salvatore), ma per chi ama il vipwatching si può anche incontrare qualche volto del mondo dello spettacolo e della politica. Questo valeva soprattutto una volta, come racconta Enrico Vanzina, ma può succedere anche oggi.
Un'altra presenza “storica” del mercato è la signora Orietta anche lei approdata a Borghetto Flaminio tramite un'amica: “L'atmosfera era molto piacevole come le persone che frequentavano il mercato e ancora oggi grazie alla mano di Enrico e Paolo, che sono dei veri signori, è rimsdyo un bell'ambiente. Sono qui da circa vent'anni e nel tempo ho venduto cose molto diverse, spesso curiose. Oggi sul banco ho ancora questo trono africano di inizio Novecento che ho avuto attraverso la moglie di un ambasciatore in Africa, chissà che incontri il suo appassionato”.

Quattro passi più in là 

Questa volta sono davvero quattro passi a separare il mercato e la prima tappa della nostra passeggiata. E per una volta a guidare è stata Alice, trascinandoci nella bottega della signora Pierina, meglio nota come la CASA DELLE BAMBOLE. Il nome del negozio già dice tutto: per chi ha figli piccoli e la tv spesso accesa sui canali per bambini, la signora Pierina può essere descritta come una “Dottoressa Peluche” ante litteram. Da decenni la sua missione è infatti quella di restituire il sorriso ai bambini curando, riparando e rivestendo le loro bambole. E dal 1987 questa missione ha il suo quartier generale nella “Casa delle bambole”, un luogo a metà strada tra l'officina e il museo, che nel 2001 ha ottenuto il riconoscimento ufficale di “bottega storica” dal Comune di Roma. Ma il negozio ha avuto una storia travagliata, e il sorriso gentile di Pierina nasconde un'anima battagliera: questa donna che ai bambini appare come una fatina, con gli assessori ha saputo trasformarsi in drago sputafuoco, fino a incatenarsi al Campidoglio per restituire un tetto alle sue bambole dopo lo sfratto che nel 2009 le aveva esiliate dalla sede storica di via Magnanapoli. Sì, perché “La casa delle bambole” in realtà si è stabilita in via Flaminia solo dal dicembre del 2010, al termine di un lungo braccio di ferro con le amministrazioni locali. Vale la pena di fare un po' di storia: la bottega originaria è inaugurata nel 1939 nel rione Monti da un artigiano che ripara cavalli a dondolo. E lo fa fino al 1946, quando viene rimpiazzato da un restauratore di bambole. Pierina e il marito Angelo gli subentrano nel 1987, con l'impegno di non occuparsi di riparazioni, per non far concorrenza all'altra bottega che il restauratore ha aperto in via Labicana, poco lontano. Ma i clienti continuano a presentarsi nel negozio di souvenir di Pierina con l'aria triste in viso e in mano bambole bisognose di aiuto: così la fatina si arma di ago e filo e si lancia nell'avventura che ancora oggi riempie i suoi giorni, in un altro angolo di Roma, ma con lo stesso entusiasmo. Ora il suo negozio espone anche una collezione privata di 64 pezzi, che vanno dalle bambole in porcellana del primo '800 alle bambole Lenci degli anni '30. Ma se chiedete a Pierina quale sia la sua preferita, vi indicherà una bambola in abito bianco regalata dal marito il giorno di Pasqua del 1974: è stato il modo escogitato dal signor Angelo per chiederla in sposa. E ha funzionato, visto che l'anno dopo i due si scambiavano le fedi, e oggi sono ancora qui, pronti a raccontare agli avventori la loro storia.

E appassionante è la storia dell'artista che ha voluto regalare alla città le sue opere, e l'intero palazzo che le ospitava: per chi volesse fare un tuffo nella Roma degli artisti a cavallo tra '800 e '900, basterà attraversare la via Flaminia e imboccare via Pasquale Stanislao Mancini, fino a raggiungere quella “Villa Helene” oggi conosciuta come MUSEO HENDRIK CHRISTIAN ANDERSEN. La storia dello scultore norvegese – ma statunitense d'adozione – è al tempo stesso la storia di un amore e quello di un'ossessione. L'amore è dichiarato in maniera magniloquente nelle due stanze al piano terra, che vedono il visitatore investito da una sorta di danza, di coreografia in bronzo e gesso affollata di atleti possenti, cavalli imbizzarriti, putti giocherelloni e nude gigantesse: è l'amore per la scultura classica, unito alla folgorazione per l'arte di Michelangelo. Ma tutte queste figure - forse retoriche, forse ormai lontane dal gusto contemporaneo – non sono altro che le tessere di un più ampio mosaico che Andersen sognava di realizzare, l'utopia che lo accompagnerà fino alla morte: quella di fondare il “Centro mondiale di comunicazione”, una città internazionale da consacrare alle arti, alla scienza e alla filosofia. Il progetto è tracciato nero su bianco, fin nel minimo dettaglio, in un librone che fa mostra di sé nello studio dell'artista: e se oggi può sembrare la pazza idea di un megalomane, nell'Europa di inizio Novecento imbevuta di ideali pacifisti la suggestione di Andersen trovò il sostegno di personalità che andavano dal collega scultore Rodin al fondatore delle Olimpiadi moderne de Coubertin, dallo scienziato Guglielmo Marconi a papa Benedetto XV, fino ad affascinare teste coronate con il re del Belgio e lo stesso Vittorio Emanuele III. Ma le generiche espressioni di favore diventarono concreto appoggio solo quando la megalomania di Andersen incontrò quella – verso altri fini indirizzata – di Benito Mussolini, che nel 1928 arrivò ad assegnare allo scultore anche il lotto di terreno dove realizzare l'opera della sua vita. Si trattava di un'area costiera tra Ostia e Maccarese, che evidentemente aveva nel destino una vocazione internazionale: lì dove doveva sorgere la mai nata Città Mondiale, oggi si trova l'aeroporto Leonardo da Vinci. Ma il seme gettato da Anderson nella mente del Duce non rimarrà senza frutto: gli echi ideali della sua monumentale retorica risuonano ancora oggi tra i palazzi dell'Eur. Ma se dal pianterreno portiamo i nostri passi al primo piano, il museo ci racconta anche la vicenda umana di Andersen, scandita da grandi amicizie (particolamente affettuosa quella con il romanziere Henry James, come testimonia un appassionato epistolario) e dall'imprescindibile presenza di tre donne. La madre Helene, cui è intitolato il palazzo; la cognata, musa e finanziatrice Olivia; e soprattutto Lucia, arrivata diciottenne a Roma dalla Ciociaria in cerca di fortuna e divenuta modella, governante e poi sorella adottiva dell'artista. Ci sono le sue forme in quasi tutti i nudi femminili esposti nella galleria, ma quando non posava per lo scultore, Lucia faceva da badante alla madre e mandava avanti le faccende di casa. Nel 1918 prese ufficialmente il cognome degli Andersen, e visse a villa Helene fino al 1978. Il senso pratico di chi deve ingegnarsi per tirare avanti lo dimostrò appieno anche dopo la morte dell'artista, avvenuta proprio mentre l'Italia stava per entrare nella Seconda Guerra Mondiale. Nel 1946 il palazzetto che era stato un atelier d'artista sarà trasformato nella ben più prosaica “Pensione Villa Helene”, e si mormora che le stanze che un tempo avevano ospitato le visite di artisti e mecenati, nel dopoguerra per una ventina d'anni siano servite piuttosto a nascondere agli occhi di mogli ignare le poco scultoree nudità dei loro mariti, intenti a esercitare altre forme di mecenatismo nei confronti di ben retribuite modelle.

Uscendo dal portone del museo dedicato all'artista norvegese, e dalla palazzina intitolata a sua madre, pochi passi ci separano dalla porta monumentale che ha fatto da scenografia a uno dei più memorabili ingressi in Roma che la storia ricordi. Protagonista un'altra donna scandinava, che per circa trent'anni sarà l'indiscussa regina - laica e illuminista - di una città da secoli e per secoli dominata dai Papi. Stiamo parliamo di Cristina di Svezia, e della sua entrata trionfale a PORTA DEL POPOLO. Siamo nel 1655, anno cruciale per Roma. Muore Papa Innocenzo X Pamphili, e con lui svanisce l'influenza della temuta e potentissima cognata Donna Olimpia, da molti considerata la vera sovrana dello Stato Pontificio, che in quell'anno si ritirerà nella Tuscia per morire di lì a poco.. Se per avere un nuovo pontefice basterà aspettare il conclave, e la fumata bianca che il 7 aprile incorona Alessandro VII Chigi, per regalare a Roma una nuova sovrana bisognerà invece arrivare quasi a Natale. Ma l'entrata in scena sarà davvero in grande stile. E' il 23 dicembre. In città piove e tira vento. I romani accalcati in piazza del Popolo iniziano a intravedere il corteo che si avvicina dalla via Flaminia. Alla testa ci sono otto trombettieri, un tamburino e due paggi. E subito dietro una figura a cavallo di un bianco destriero, avvolta in una mantellina nera. Sul capo ha un ampio cappello piumato, ma chi ne scorge il viso può intuire – forse con stupore - il grosso naso e i lineamenti vagamente maschili, tanto lontani dall'immagine che Greta Garbo ha regalato di lei ai nostri contemporanei. A seguire, una carrozza argento e celeste, vuota: l'ha disegnata per lei il Bernini in persona, ma Cristina di Svezia ha preferito cavalcare da sola. (In seguito i due stringeranno amicizia, e sarà lo stesso Bernini a progettare per lei la speciale sedia – ben più di uno sgabello e poco meno di un trono – che le permetterà di sedere a tavola con il Pontefice, risolvendo un complicato problema di cerimoniale. Quello di avere il Bernini come designer personale non stupisce, in una donna come Cristina: ai tempi di Stoccolma, le ripetizioni private di filosofia gliele dava Cartesio...). Il suo ingresso in città è solo il primo atto di una appassionante vicenda che vedrà la regina anti-conformista e ribelle diventare in breve la grande protagonista della vita culturale romana: nei palazzi che abita ospita cenacoli letterari e fonda Accademie per promuovere le arti, la musica, la fisica e la matematica. Si interessa di alchimia e occultismo, patrocina la prima spedizione verso Capo Nord, fonda il primo teatro pubblico della città. E nel corso dei suoi soggiorni romani non manca mai di ingaggiare furibonde battaglie con il Vaticano, dalla difesa delle libertà degli ebrei al diritto delle donne di recitare in scena. Eppure era stato proprio il papato a sponsorizzare col massimo della pompa il suo trasloco nella Città Eterna: nel 1655 era ancora fresco l'inchiostro sulla pace di Vestfalia, e agli spin doctor vaticani non pareva vero di poter vendicare lo smacco ingaggiando una sovrana protestante che aveva appena abiurato Lutero per abbracciare il cattolicesimo. Ma non avevano fatto i conti col temperamento di Cristina (che tra l'altro è ora sepolta in Vaticano, accanto a Papa Wojtyla...). O forse sì, ma avevano giudicato che il ritorno d'immagine fosse superiore al rischio che correvano. Secondo alcuni maliziosi interpreti, una prova evidente della diffidenza del Papa si può rintracciare proprio nella cerimonia di ingresso in città della regina. E qui, dopo una lunga divagazione, torniamo alla nostra Porta del Popolo. La sua ristrutturazione – in occasione della festa per Cristina - era stata commissionata al solito Bernini. Ma il lavoro che gli fu chiesto – e che lui sbrigò con la consueta eleganza – era sostanzialmente privo di logica: perché il portale ristrutturato – con tanto di lapide di benvenuto, che scolpisce sul marmo una dedica al “felice e fausto ingresso” - era quello della facciata interna, ovvero quello che l'ospite d'onore si sarebbe trovato alle spalle una volta varcata la soglia, anziché quello che gli avrebbe dovuto rendergli omaggio al suo arrivo dalla via Flaminia. Per la cronaca – e per voi che come Cristina vi state avvicinando a piazza del Popolo dalla Flaminia – la facciata esterna così come la vedete davanti ai vostri occhi risale a circa un secolo prima, ed è una pur pregevole collezione di “scarti”: quattro colonne provengono dall'antica Basilica di S.Pietro, le statue dei santi Pietro e Paolo sono arrivate fin lì dopo essere state rifiutate dalla Basilica di S.Paolo. E persino il progetto complessivo è “di seconda mano”: papa Pio IV lo aveva affidato a Michelangelo, ma il Buonarroti lo ha poi subappaltato a Nanni di Baccio Bigio, un suo ex discepolo divenuto poi rivale, che a lungo aveva brigato per fargli le scarpe quando lavoravano insieme al cantiere di S.Pietro. Ma questa è un'altra storia...

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PARCHEGGIO qualche posto in piazza
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METRO A (fermata Flaminio, 550 mt a piedi)
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